Mobilità e flessibilità sono l’unica risposta alla nuova situazione che si sta prefigurando? Fino ad oggi molte aziende hanno sperimentato il lavoro agile che spesso e impropriamente è stato definito smart working. Ma quando lo smart working può dirsi davvero smart? Lorenzo Bassi, Partner di Carter & Benson, ci offre un approfondimento sul tema. La situazione attuale Lo smart working, croce e delizia di una soluzione oggi al centro di numerosi dibattiti. Aziende pubbliche, imprese private di tutte le dimensioni, dipendenti e collaboratori hanno sperimentato negli ultimi due anni e mezzo un diverso modo di lavorare in risposta a una situazione nella quale limitare i contatti tra le persone era diventato fondamentale per diminuire la diffusione del virus e allo stesso tempo era necessario garantire la continuità economico – produttiva delle aziende. In Italia, da meno di mezzo milione nel 2019 siamo passati a oltre 5 milioni del 2021, come riporta il Rapporto sul benessere nel lavoro da casa 2022 di NFON. Dati che trovano conferma nell’Osservatorio sullo Smart Working del Politecnico di Milano, dal quale emerge anche che la stima del bacino potenziale degli smart worker sia di otto milioni sui diciotto milioni di lavoratori totali. L’emergenza sanitaria è stata certamente un elemento di accelerazione dell’evoluzione dei modelli di lavoro verso forme di organizzazione più flessibili e intelligenti. Ha cambiato le aspettative e le abitudini dei lavoratori e ha impegnato le imprese nella ricerca di nuovi equilibri fra lavoro in presenza e a distanza. Le ha obbligate a investire in tecnologia IT laddove il cloud e ha contribuito a promuovere la condivisione delle informazioni e la collaborazione mettendo le persone in grado di poter lavorare in team e sottraendole a un fenomeno che rischiava di impattare pesantemente sulle relazioni: l’isolamento. All’insegna della mobilità e della flessibilità, il cambiamento delle modalità lavorative sta certamente influenzando gli aspetti etici dell’azienda. Ha creato ambienti più sostenibili e inclusivi, elementi importanti nella scala valoriale delle persone che hanno testato in questo lungo periodo i vantaggi derivanti da un maggior equilibrio tra tempo dedicato al lavoro e alla vita privata, e anche tra i giovani che sono sempre più attenti e sensibili ai temi legati al benessere della persona: fisico, mentale, sociale e ambientale. Ma è realmente smart working? Ora siamo in una fase nuova, usciti dall’emergenza, ma con nuove problematiche legate alla guerra che sta impattando pesantemente sugli aspetti economici di aziende e famiglie e con la necessità per ogni azienda di scegliere con quale modalità lavorativa proseguire e come strutturare la propria organizzazione. Ci troviamo pertanto sempre più spesso di fronte a tre situazioni differenti tra loro. Aziende che dimostrano ancora forti resistenze culturali al cambiamento e in questo momento hanno più forte la tentazione di un ritorno al passato, richiedendo ai propri dipendenti il rientro in totale presenza, con tutto quello che ne consegue, orari, cartellino e controllo. Aziende che propongono un approccio di smart working ibrido, obbligando però i lavoratori a 2 o 3 giorni a casa e 2 o 3 in ufficio. Oppure aziende che scelgono il modello impropriamente chiamato full smart working, perché in realtà si tratta di telelavoro. Quando lo smart working è davvero smart Lo smart working deve essere una forma intelligente di lavorare e noi crediamo che questa formula possa essere realmente tale solo quando una persona può decidere liberamente come gestire i propri impegni e sulla base di questi impegni organizzare liberamente dove svolgere la propria attività e con quali tempi, senza avere giorni o schemi fissi imposti. Una forma intelligente di lavoro passa, infatti, dalla RESPONSABILITÀ delle persone e siamo convinti che se ben interpretata possa giovare effettivamente al lavoratore in termini di work life balance e benessere, e all’azienda in termini di produttività, reputazione e crescita. Lo abbiamo sperimentato con grande soddisfazione noi di Carter & Benson con l’adozione, già prima del 2020, di una strategia di gestione delle risorse umane basata su fiducia, autonomia e responsabilità. IL LAVORO PUO’ ESSERE DEFINITO “SMART” solo quando cadono le barriere legislative e psicologiche legate al “lavorare secondo orari”, e quando si passa al concetto di lavoro per obiettivi. Allo stesso tempo, l’espressione del lavoro potrà essere davvero “smart” solo quando sarà libera da schemi autoritari di controllo (“ti vedo e quindi so che lavori”) e si creeranno strumenti e metriche efficaci e di valore che misurino il raggiungimento dei suddetti obiettivi, così come l’impatto/apporto aziendale di ciascuna singola risorsa, considerando aspetti sia quantitativi che qualitativi di performance. Mai come ora il ruolo degli HR manager è strategico Certo, lo smart working non può essere applicato in tutti i settori e in tutti i ruoli e impatta maggiormente sul mondo dei servizi piuttosto che su quello produttivo. Se correttamente gestito, bilanciato e costruito in base alla natura delle attività che svolge il singolo profilo, lo smart working è una soluzione che offre innumerevoli vantaggi. La sfida più grande per gli HR manager è l’adattamento ai tempi e ai repentini cambiamenti che impongono. È l’abilità di individuare bisogni e attese dei lavoratori, anche quelli non espressi. È la capacità di disegnare una linea strategica nella gestione delle risorse umane, revisionando i modelli di leadership dell’organizzazione e rafforzando il concetto di collaborazione. È puntare alla flessibilità, mettendo al centro la persona e fornendole adeguate motivazioni perché senta forte il senso di appartenenza, perché sia alto il livello di coinvolgimento e fidelizzazione e, di conseguenza, di engagement, attrazione e retention. È creare tutte quelle condizioni perché il concetto di ufficio sia realmente “aperto”, scevro da condizionamenti, che favorisca la creatività, le nuove idee e le relazioni. 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